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Il vaccino anti-CoViD aumenta il rischio di trombosi?

Vaccini anti-CoViD e rischio di trombosi

Il vaccino anti-CoViD aumenta il rischio di trombosi?

Il quinto numero di Risposta ImmunITALIA, la rubrica settimanale in cui il prof. Minelli risponde alle domande dei pazienti, è dedicato alla correlazione tra vaccini anti-CoViD e trombosi e alla eventuale trasmissibilità del coronavirus attraverso il fumo di sigaretta.

Il punto da cui partire rimane sempre lo stesso: non vi è dubbio che i benefici dei vaccini superino i rischi! È un dato di fatto, ma è anche un dato che fa discutere visto che i governi di diverse nazioni stanno contingentando la somministrazione del vaccino AstraZeneca a determinati gruppi di età, la Danimarca ha deciso di non utilizzarlo, mentre Johnson&Johnson ha temporaneamente interrotto la distribuzione del suo vaccino.
Sicuramente si è creata tanta confusione e, dalla confusione, si generano innumerevoli domande delle quali proviamo a fare sintesi.

Esiste davvero una correlazione tra vaccini e formazione di coaguli di sangue?

Nei vaccini a vettore virale (AstraZeneca, Johnson&Johnson) il materiale genetico grazie al quale nelle cellule umane si forma la proteina spike contro cui il soggetto ricevente sviluppa specifici anticorpi utili per proteggere dall’infezione, viene trasportato da un adenovirus inattivato.  Ancora non si sa con precisione quale componente di questi vaccini potrebbe essere l’elemento scatenante l’eventuale reazione trombotica, se il virus vettore, un contaminante presente nel vettore o la stessa proteina spike prodotta nelle cellule umane.

Di certo le sedi maggiormente interessate dai fenomeni coagulativi attribuiti ai vaccini “a vettore virale” risultano essere il cervello e l’addome e i conseguenti eventi trombotici sono generalmente associati a bassi livelli di piastrine, per cui si parla di Trombocitopenia Trombotica Immuno-Indotta da Vaccino (VITT).

Per approfondimenti sul tema leggi il quarto numero sui rischi associati ai vaccini anti-CoViD.

Sono solo i prodotti di AstraZeneca e Johnson&Johnson quelli più a rischio o dovremo aspettarci effetti analoghi anche da parte di altri vaccini anti-CoViD?

Il mancato riscontro di effetti trombotici in soggetti trattati con vaccino a mRNA (Pfizer, Moderna) farebbe supporre che a procurare effetti avversi severi di tipo trombotico siano solo i vaccini a vettore adenovirale, tra i quali figura, però, anche lo Sputnik V sviluppato a Mosca. Tuttavia, i ricercatori russi hanno tenuto a precisare che “il fatto che si tratti di vaccini basati sull’adenovirus non vuol dire che tutti gli adenovirus utilizzati nei processi di produzione siano uguali, potendoci essere differenze, oltre che nei virus utilizzati, anche nei substrati cellulari in cui essi sono stati sviluppati, nella tipologia di materiale genetico in essi contenuto, nelle tecniche di purificazione e nei dosaggi con cui vendono inoculati”.
Nel breve si procederà ad esaminare, con specifiche metodiche di laboratorio, gli effetti dei diversi vaccini anti-CoViD oggi disponibili e i risultati di queste sperimentazioni saranno particolarmente importanti e utili per capire a quali vaccini noi dovremo preferenzialmente affidarci nel prossimo futuro: se quelli a vettore virale o quelli a RNA messaggero.

Qual è la reale incidenza degli eventi trombotici nei soggetti trattati con vaccini a vettore virale (AstraZeneca)?

Per quanto il numero di casi sia in continuo aggiornamento, i dati ufficiali registrati lo scorso 22 marzo su 25 milioni di persone vaccinate in Europa, segnalavano 86 casi potenziali di Trombocitopenia Trombotica Immuno-Indotta da Vaccino (VITT): il rischio di sviluppare la reazione trombotica sarebbe, dunque, pari allo 0,0003%. Una percentuale molto bassa che, tuttavia, sarebbe anche da considerare con cautela e riserva, visto che le segnalazioni di eventi avversi provenienti da sedi differenti possono risultare disomogenee e, dunque, non uniformi per classificazioni non perfettamente calibrate.

Per quel che riguarda gli eventi trombotici post-vaccinali, ci sono persone più a rischio ed altre meno a rischio? E come si possono individuare?

Non possono essere fornite, al momento, risposte attendibili a queste domande soprattutto considerando il numero molto piccolo di eventi critici verificatisi finora e la disomogenea distribuzione dei vaccini fin qui somministrati. Quindi, per riscontri più certi sarà necessario attendere eventuali segnalazioni di reazioni avverse in tempi più lunghi.

Di certo si può dire che, in assoluto ed indipendentemente dai vaccini, la formazione di trombi è molto più frequente nelle persone anziane, nelle quali l’insorgenza di un ictus o comunque di un accidente intravascolare riconducibile ad anomala coagulazione del sangue suscita molto meno stupore e scalpore di quanto non succeda quando gli stessi eventi si manifestano in soggetti giovani e magari anche vaccinati. Questo porta, evidentemente, ad accertamenti e ad indagini molto più accurate ed approfondite di quelle che potrebbero essere attuate per altre fasce d’età e, quindi, anche ad una maggiore evidenza mediatica.

Anche la supposta prevalenza degli eventi trombotici in giovani donne è stata recentemente esclusa dall’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) in quanto notizia non accertabile sulla base dei dati disponibili per il vaccino AstraZeneca. Tra l’altro, il maggiore coinvolgimento di questa tipologia di persone vaccinate, stando a quanto riportato in alcuni rapporti, potrebbe dipendere dal fatto che per le vaccinazioni è stata data priorità agli operatori sanitari e agli insegnanti per la più gran parte rappresentati proprio da soggetti di sesso femminile.

Sono giustificate le paure dei pazienti rispetto ai potenziali effetti collaterali dei vaccini?

Io penso che la credibilità di un vaccino che, differentemente da un farmaco dedicato ad una specifica categoria di persone, interessa tutta la popolazione, dipenda molto dalle modalità con le quali vengono comunicati al grande pubblico i suoi benefici e gli eventuali rischi. E, nel caso dei vaccini anti-Covid a vettore virale (AstraZeneca; Johnson & Johnson), le infinite discussioni tecniche che hanno generato dubbi crescenti sui danni potenziali o sulle differenti fasce d’età da destinare ad un vaccino piuttosto che ad un altro, non hanno certamente alimentato la fiducia nella gente.

Per smontare questa crescente inquietudine a nulla sono valsi gli interventi delle autorità regolatorie che, sospendendo prontamente le vaccinazioni alle prime avvisaglie di criticità, hanno dimostrato grande e puntuale attenzione a salvaguardia della sicurezza di milioni di cittadini. Tutto ciò non è bastato ad annullare le diffuse preoccupazioni legate ad un certo tipo di vaccino.

Quel che ci si può augurare è che eventuali aggiustamenti in corso d’opera, rivedendo, ove fosse possibile, le quantità di vaccino da somministrare con ogni singola dose, possano far riacquisire alla gente quella giusta fiducia capace di far prevalere le informazioni positive su quelle negative. E tutto questo, anche in ragione degli indubbi vantaggi di un vaccino economico da produrre e molto più facile da conservare rispetto a quelli a mRNA. Senza mai dimenticare che la potenzialità di rischio del vaccino risulta essere sempre e decisamente irrilevante rispetto alla grande pericolosità del SARS Cov-2.

È ipotizzabile che con il fumo di sigaretta, anche all’aperto, si possa trasmettere il virus? E con le sigarette elettroniche?

La questione è datata e controversa, visto che la nicotina è stata addirittura considerata sostanza capace di agire positivamente sui pazienti affetti da Covid in ragione di alcuni effetti antinfiammatori di cui sarebbe dotata (COVID-19 and Smoking: What Evidence Needs Our Attention? Front Physiol. 2021; 12: 603850).

In realtà i dati attendibili relativi ai rischi di Covid-19 correlati all’uso di sigarette sono pochi, a meno che non si includa tra questi la necessità, per chi sta fumando in luogo pubblico, di abbassare la mascherina con ciò espirando nell’aria circostante l’eventuale virus di cui il fumatore potrebbe essere portatore inconsapevole. Ma questa non è già più un’azione direttamente correlabile al fumo in quanto tale.

Di certo, quel che si può dire è che la pandemia non ha incoraggiato i fumatori a smettere, soprattutto in ragione dell’isolamento a casa che, anzi, ha contribuito a consolidare le abitudini tabagiche aumentando le quantità del fumo attivo e, purtroppo, anche passivo. E, come già più volte segnalato, il fumo di sigaretta porta ad un’aumentata espressione di ACE2, il famoso recettore “chiave” attraverso cui il nuovo coronavirus innesca, per il tramite della propria proteina “spike”, il micidiale processo patologico di cui è capace. Oltre a questo è noto che il fumo di sigaretta ma anche gli aromi delle sigarette elettroniche sovraregolano la produzione di citochine “nemiche” e cioè di mediatori dell’infiammazione (CCL20 e CXCL8 nei fumatori di sigarette; CCL5 e CCR1 nei consumatori di sigarette elettroniche), cosa che non sembra accadere nei casi in cui vengono utilizzati per il fumo elettronico prodotti privi di aromi e nicotina (Tobacco, but Not Nicotine and Flavor-Less Electronic Cigarettes, Induces ACE2 and Immune Dysregulation. Front Physiol. 2020; Jul 31;21(15):5513).

Dunque certamente l’abitudine consolidata al fumo può essere considerata elemento in grado di potenziare l’infiammazione correlata alla malattia Covid-19, ma individuare nel fumo passivo occasionale un’aumentata possibilità di rischio di contrarre il SARS Cov-2 rimane ipotesi al momento priva di alcun fondamento.

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