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Malattie croniche: lettura attualizzata di un problema socio-sanitario, culturalmente disatteso

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Malattie croniche: lettura attualizzata di un problema socio-sanitario, culturalmente disatteso

Non credo davvero sia possibile programmare un’adeguata medicina del futuro senza aver prima ripensato e resettato la medicina del presente, ancora oggi in gran parte impostata su esigenze e criteri del passato.

Ecco qualche esempio per semplificare: tra il 1900 e il 1950, i Sistemi Sanitari occidentali si sono prevalentemente orientati al contrasto delle criticità in quel momento più emergenti. Era logico e normale che ciò accadesse poiché si erano appena conclusi i conflitti mondiali. Ma quelli erano anche i tempi del “pericolo poliomielite” e delle pandemie planetarie, come l’Influenza Spagnola del 1918 che riuscì a mietere milioni di vittime in pochi mesi. Non a caso, gli avanzamenti sanitari più significativi, in quegli anni, riguardarono la medicina d’emergenza, l’infettivologia, la terapia intensiva, la traumatologia, la riabilitazione, la chirurgia.

Ma, se il XX secolo è stato il periodo della lotta alle malattie acute nel quale si è creata e progressivamente consolidata la medicina d’urgenza, fin dagli albori del XXI secolo le statistiche pubbliche hanno iniziato ad indicare un radicale mutamento delle necessità socio-assistenziali e sanitarie, anche in ragione di un significativo aumento degli anni di vita cui, però, si è subito collegato un parallelo incremento delle patologie croniche di medio e, soprattutto, di lungo periodo.

È questo un trend che non si è mai interrotto e che, anzi, la pandemia da nuovo coronavirus ha ulteriormente potenziato soprattutto nelle evoluzioni del cosiddetto “long-covid”. Ma quei sistemi sanitari, che pure nella prima metà del secolo scorso furono così solerti nell’adattare i servizi alle esigenze più pressanti del cittadino/paziente/utente, oggi sono in grado di cogliere, con la stessa tempestività di ieri, il bisogno di rimodulare le attività sanitarie e assistenziali, per sostenere l’impatto sociale delle nuove e grandi emergenze di quest’epoca?

Tante domande, altrettante soluzioni?

Ma cosa sono le malattie croniche? Saranno, per caso, malattie acute che durano più a lungo? Oppure sono malattie delle sole persone anziane? O sono malattie “rare”?

E gli ospedali: quelli grandi e superdotati, quelli pubblici e quelli privati, quelli degli enti ecclesiastici o comunque accreditati, sono riusciti a cogliere la differenza, tutt’altro che sottile, tra degenze per cronici e degenze per acuti? O l’unico elemento di discrimine, oggi molto più di ieri, rimane il valore netto contabile dei DRG?

La realtà delle malattie croniche

Ma quali sono, alla fine, le malattie croniche? È forse è il caso di identificare quest’entità, altrimenti astratta, che rischia di perdersi nella descrizione barocca (e fuorviante) di chi le vorrebbe a discapito esclusivo delle persone anziane da ricoverare, semmai, nelle geriatrie.
Soprattutto in quest’ambito, che può esporsi a letture sommarie, devianti o comunque non univoche, occorre essere espliciti e dare un senso reale alle cose, ben oltre le descrizioni teoriche che potrebbero non offrire l’esatta misura di quel che si vuol dire.

Per questo, da immunologo di trincea, provo a rispondere al quesito con un esempio pratico, uno spaccato di vita quotidiana; uno dei tanti, uno dei soliti raccolti ed assemblati intorno al disincanto di chi non ha altro da offrirti se non la propria storia, identica a molte di quelle già sentite e risentite mille volte.

A raccontarla, questa volta, è una donna anagraficamente giovane ma tumefatta in viso, gonfia, dolorante e provata. Già malata cronica! Parte subito, nella difficile narrazione della propria storia, dalla solita premessa: “Dottore, non so da dove incominciare… Posso solo dire con certezza che tutto ha avuto inizio molti anni fa… da allora ho girato tanti dottori, come una trottola!”.

A fatica mi interpongo solo un attimo nella narrazione per chiederle: “Ma quanti anni fa, se ancora adesso ne ha meno di 40?”. E lei: “Da piccolina ho avuto l’asma e poi l’orticaria che mi gonfiava come un palloncino. Dopo mi si è ammalata la tiroide e me ne hanno tolta una parte, dicendomi che era stata aggredita dal mio stesso sistema immunitario. E adesso anche le ossa, con le articolazioni che si bloccano non facendomi più finire le faccende domestiche; e sento una forte secchezza nella bocca, negli occhi, sulla pelle. E in più, si è aggiunto anche l’intestino con i suoi disturbi…. Io non ce la faccio più! Mi dicono che è tutta colpa del mio sistema immunitario!
Ma se è tutto dipendente da un unico fattore, perché per l’asma io continuo a essere visitata in un reparto, per l’orticaria in un altro, per la tiroide in un altro ancora e, via via, in ambienti diversi per le ossa, per le articolazioni, per l’intestino e per la stanchezza cronica? E perché ciascuno di questi reparti mi dimette con una sfilza di farmaci che, in gran parte, non tiene conto di quella che mi è stata prescritta al termine del ricovero precedente?

Io ormai colleziono farmaci: a casa ne ho cassetti pieni e molti son costretta a buttarli perché scadono! Dottore, mi scusi, io esprimo un mio parere, da incompetente in materia, non sarebbe meglio prevedere un reparto unico, con più medici diversi che lavorano insieme, si scambiano opinioni e pareri e poi, alla fine, concordano una diagnosi e una terapia unica in favore del paziente? Perché, farci girare come forsennati in più reparti diversi, dove ciascun medico dice la sua, propone una sua diagnosi e una sua terapia così da aggiungersi a quelle già collezionate in precedenza senza poi ottenere, alla fine, una stabilizzazione del problema visto che, dopo oltre 20 anni di malattia, io sono ancora a cercare una soluzione alle mie sofferenze?”

Certo. È una storia, una delle tante che, tuttavia, rispecchia più o meno fedelmente i risultati dei tanti rapporti ufficiali che le organizzazioni accreditate pubblicano da anni, evidenziando un’emergente necessità, sempre più pressante nei numeri e nei costi, ma alla quale non si riesce a dare, attualmente, una risposta esaustiva.

Da parte mia, posso solo provare a sintetizzare i punti focali di un problema che, giustamente, viene definito emergente e a fornire a quei punti delle plausibili chiavi di lettura.

Prevenzione delle malattie croniche

Cosa riserva oggi il Sistema Sanitario ai pazienti con storia clinica simile a quella narrata in precedenza?
Oggi accade, generalmente, che questi pazienti vengano ricoverati in più ospedali o in più reparti per essere curati solo nell’organo sofferente, con farmaci sintomatici diversi, a seconda del reparto in cui il paziente viene ricoverato.

Cosa chiedono i pazienti?
Che venga allestita una struttura in cui un paziente affetto da una o più malattie croniche, magari di quelle immunomediate — che son le più frequenti e le più invalidanti tra le “giovani cronicità” — venga sottoposto ad unico iter diagnostico e avviato ad una terapia unica, condivisa e finalizzata non a tamponare l’ultimo sintomo comparso in ordine di tempo ma, semmai, a neutralizzare la causa della sua malattia una volta che questa sia stata univocamente accertata e conosciuta.

Quali potrebbero essere i benefici?
Proviamo a immaginare quanto risparmio potrebbe esserci, in termini di spesa farmaceutica, di disagi, di ricoveri e di liste d’attesa se il decisore pubblico si convincesse dell’elementare semplicità di questi concetti che non tolgono nulla a nessuno, ma che chiamano medici diversi e portatori di competenze multiple ad un impegno comune, condiviso anche logisticamente e, per questo, certamente molto più efficace (oltre che molto più economico) di quello che potrebbe essere offerto in una formulazione monospecialistica.

Sembra l’uovo di Colombo, eppure le difficoltà continuano a esserci, la gestione della sanità continua a essere in affanno e l’insoddisfazione dei cittadini continua a restare alta mentre si cerca una ragione e un qualche possibile rimedio. D’altro canto, la mancanza di programmazioni innovative in ambito sanitario, la mancanza atavica di politiche non autoreferenziali, coraggiosamente rigorose nel riconoscimento dei tanti sprechi regionali, non può che tradursi, alla fine, in una riduzione delle aspettative di vita per tanti cittadini. E, probabilmente, questi sono solo i primi segnali di una riduzione dell’efficienza del sistema che determinerà in futuro conseguenze ancora peggiori, in quanto ci vorranno anni di buona politica sanitaria per osservare una vera inversione di tendenza.

Malattie croniche e buona politica sanitaria

E siamo al punto: la buona politica sanitaria! Quella che certamente non parla solo di chiusure e accorpamenti di reparti, di cancellazioni inderogabili dei punti di primo intervento, di grandi insediamenti nosocomiali tendenti a riassumere in postazioni caotiche, complesse e assai poco funzionali, i piccoli “grandi” ospedali territoriali, dalla storia nobile ed eroica ma dal presente incerto e dal futuro ignoto!

Quella politica che non ignora e, anzi, affronta con competenza il triste primato delle malattie croniche: uniche a non beneficiare di interventi strutturali e prima voce di spesa nei bilanci dei servizi sanitari. Quella politica che mai dovrebbe disancorarsi dalle nozioni e dai nobili princìpi impartiti, con sapienza e perizia ineguagliabile, dai Maestri negli anni belli della formazione medica: “e soprattutto, ragazzi, non dimenticate che il vostro Paziente non sarà mai soltanto un naso, o un polmone, o un intestino. Il vostro Paziente sarà comunque sempre una Persona” (Prof. Alfredo Tursi, da una lezione della Scuola di Specializzazione in Allergologia e Immunologia clinica – Bari 1990).

Rimane questa, al momento, l’unica certezza e anche l’unico rimedio. E, compatibilmente con i luoghi nei quali sarà possibile attuarla, sarà sempre un dovere etico e professionale rispettarla e seguirla con rigore e con ferma convinzione.
Ecco, la buona politica sanitaria dovrebbe ripartire esattamente da qui!



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