Loader
 

Disordini Infiammatori Immunomediati (IMID): i punti nevralgici della loro complessa gestione clinica e assistenziale

disordini-infiammatori-immunomediati

Disordini Infiammatori Immunomediati (IMID): i punti nevralgici della loro complessa gestione clinica e assistenziale

L’intestino è l’interfaccia più importante tra l’organismo e l’ambiente esterno, e la sua salute è strettamente e vicendevolmente interconnessa al regolare funzionamento del sistema immunitario.

Per affrontare con efficacia le tante e complesse malattie connesse a disfunzioni del sistema immunitario, è necessario un approccio interdisciplinare e un rinnovato modo di instaurare e vivere la relazione medico-paziente.

Ne parla il prof. Mauro Minelli nell’intervista rilasciata al senatore Gianni Pittella.
Riportiamo qui di seguito il testo dell’intervista, pubblicata il 9 gennaio 2022 sul portale giannipittella.com nella sezione Le Grandi Interviste.

Può spiegarci cosa significa malattie infiammatorie immuno-mediate?

Nel rispondere a questa domanda non posso non richiamare la mia passata esperienza di Dirigente medico responsabile del Centro IMID, rimasto unico nel suo genere nel Centro-Sud Italia.
IMID è un acronimo che sintetizza in quattro lettere il mondo complesso della Malattie Infiammatorie Immuno-Mediate, ovvero le Immune-Mediated Inflammatory Diseases. Un elenco esaustivo delle IMID non è facilmente realizzabile. Di certo si tratta di patologie assai numerose e complesse, soprattutto croniche, dovute ad un malfunzionamento o deviazione del sistema immunitario, con meccanismi generatori di patologia in cui hanno parte tanto il substrato genetico del singolo individuo quanto i fattori ambientali. Sono incluse in quest’ambito le allergie (respiratorie e/o cutanee), gli immunodeficit primitivi e secondari, le malattie autoimmuni (artrite reumatoide, lupus, tireopatie autoimmuni), le vasculiti, le malattie immunologiche dell’apparato gastrointestinale (gastriti autoimmuni, morbo di Crohn, Rettocolite Ulcerosa), le malattie immunoproliferative, le malattie Infettive tanto più se a valenza sistemica (AIDS, CoViD…).
Anche se differenti tra loro per eziologia, patogenesi, sintomatologia e organo interessato, tutte le IMID hanno un denominatore comune: la disregolazione del Sistema Immunitario, di origine genetica, influenzata dall’ambiente.

Erano queste le patologie diagnosticate, affrontate e curate dal Centro che per qualche anno ho avuto l’onore di dirigere, poi chiuso per l’intervento di condizionamenti ostili e avversi, e mai più riaperto. L’archetipo di quel Centro era la specializzazione integrata e cioè la “inter-disciplinarità” delle competenze, piuttosto che la “pluri-disciplinarità”. Poiché le patologie anzidette interessano contemporaneamente diversi organi o apparati, il paziente veniva realmente posto al centro di un sistema pubblico che integrava differenti figure specialistiche nell’intento di raggiungere una sicura diagnosi ed una terapia ottimale, sulla base di una visione sistemica e generale dell’organismo umano colpito da una patologia immuno-infiammatoria.

Questo era il progetto IMID, impegnato a gestire malattie complesse ad andamento cronico, che mirava – riuscendoci – a superare il paradosso e la parcellizzazione delle patologie dovuta ai “DRG” (gruppi di diagnosi correlate), con una nuova gestione organizzativa fondata su percorsi assistenziali, il più possibile completi ed efficaci, totalmente incentrati sul paziente. Il paziente con IMID non doveva così più percorrere una via crucis da uno specialista all’altro, con grande dispendio di tempo, ritardo di una corretta diagnosi e terapia, e inutili spese a carico, oltre che suo, anche del S.S.N. Senza trascurare, a vantaggio di quest’ultimo, l’oggettivo risparmio in termini di contenimento della spesa farmaceutica.

Quindi se una persona ha mal di pancia, ha stipsi o diarrea, solo per fare un esempio, può dipendere dalla correlazione col sistema immunitario?

Ma è proprio il concetto IMID che implica un fondamentale cambiamento concettuale: nella concezione delle immunopatie, nei rapporti tra discipline diverse, nel comportamento del medico. I presupposti che lo ispirano sono ampiamente riconosciuti e validati e, in questo senso, l’evidenza più aggiornata della Scienza Medica, al di fuori dagli stretti limiti di un’assistenza ospedaliera per certi versi oramai obsoleta, lo dimostra con l’avvento della Medicina Personalizzata e grazie agli enormi progressi della genomica umana.

In tutto questo, l’intestino, con la sua superficie assorbente di 300-400 m2, è l’interfaccia più importante tra l’organismo e l’ambiente esterno e, dunque, svolge una funzione dicotomica di straordinaria rilevanza: da un lato regola le dinamiche di transito e, dunque, garantisce il fisiologico assorbimento di acqua, elettroliti e vari nutrienti essenziali, dall’altro gioca un ruolo strategico nei delicati meccanismi di difesa dell’organismo. Non va dimenticato, tra l’altro, che il tratto gastrointestinale contiene almeno 1014 (centomila miliardi) batteri vivi che prevalgono a livello dell’intestino crasso, convivono con l’organismo umano senza danneggiarlo e, nel loro insieme, formano il cosiddetto “microbiota”. Si calcola che il numero di geni inclusi nel microbiota e che compongono il “microbioma” intestinale è maggiore di 150-500 volte rispetto al numero di geni che compongono il genoma umano. Si è anche calcolato che l’insieme dei microorganismi intestinali ha una massa di circa 1,5 kg e svolge funzioni di notevole importanza per la fisiologia dell’organismo ospitante, tanto da essere oramai considerato “un organo nell’organo”, a lungo trascurato ma molto sensibile a fattori dietetici, ambientali e legati all’ospite. Fattori diversi come le malattie autoimmuni e quelle croniche, i farmaci, gli antibiotici, il fumo, il livello di stress e la dieta influiscono sulla sua composizione. Studi condotti negli ultimi anni suggeriscono, per esempio, che l’alterazione del microbiota intestinale è uno dei fattori che più contribuiscono alla progressione dell’obesità essendo in grado di modulare il metabolismo dell’ospite attraverso le azioni esercitate sul bilancio energetico, sull’infiammazione cronica di basso grado e sulla funzione di barriera intestinale.

Perché si dice spesso che l’intestino è l’orologio del nostro organismo?

Il canale intestinale è una struttura complessa, strutturalmente e funzionalmente composta da quattro componenti principali (chimica, microbiologica, fisica e immunologica), sinergicamente coinvolte nel mantenimento della vitale funzione di barriera. Sotto il profilo anatomo-fisiologico possiamo senz’altro affermare che questo canale, che nell’adulto è lungo circa 10 metri, è dotato di una fitta rete di neuroni dislocati in quantità impressionante lungo tutto il suo decorso, per quanto soprattutto concentrati nel colon; e il loro numero, stimato intorno ai 500 milioni, sembrerebbe equivalere a quello dei neuroni contenuti nel “primo cervello”.

Per garantire il regolare svolgimento delle delicate e complesse funzioni dell’apparato gastroenterico, i neuroni intestinali comunicano certamente tra di loro ma anche e soprattutto con il sistema nervoso centrale attraverso una ricca compagine di cellule assonali, così generando un importantissimo asse comunicazionale (Gut-Brain Axis) in continuo interscambio. Tale rapporto che è bidirezionale, per quanto i messaggi che dall’intestino si diramano verso il sistema nervoso si ritenga siano ben più numerosi di quelli che viaggiano in direzione opposta, da una parte può spiegare una serie di turbe funzionali dell’intestino come, ad esempio, quelle che caratterizzano il quadro clinico del cosiddetto “colon irritabile”, e dall’altra contribuisce alla costante informazione del “primo cervello” aggiornandolo su ciò che accade nell’intestino e quindi mettendolo in condizione di modulare, per esempio, l’apporto energetico di cui l’organismo può aver bisogno. Accade, così, che le emozioni possono modificare le funzioni del sistema gastrointestinale, e per contro una malattia di quest’ultimo può incidere sulle nostre emozioni.

Tra l’altro, come già anticipato, il “cervello intestinale” non è composto solo da un sistema anatomico complesso derivante dall’insieme di intestino tenue, stomaco e colon con le loro cellule e fibre nervose, ma anche e soprattutto da una vera e propria “intelligenza microbiologica”, parte di quella barriera già citata e che costituisce la grande novità della medicina odierna, purtroppo non ancora sufficientemente conosciuta e valutata per il suo inestimabile valore tanto in salute quanto in malattia.

Cosa si intende per Medicina Personalizzata?

Quando, entusiasti, commentavamo qualche anno fa la straordinaria iniziativa “Medicina di Precisione” di Barak Obama, convintamente sottolineavamo i benefici che, sulla salute umana, potevano derivare, oltre che dalle misurazioni in tempo reale della glicemia, della pressione arteriosa e del ritmo cardiaco, anche dalla definizione del genotipo esclusivo di un individuo o dalla determinazione delle cellule immunitarie disponibili, delle cellule cancerose eventualmente circolanti nel sangue periferico o del DNA tumorale.

E però ripensandoci, malgrado l’indiscutibile rilievo di quella apertura strategica affatto comune nel ceto politico ordinario, la prospettiva oggi, a sette anni di distanza da quel 20 gennaio 2015, non può non essere ulteriormente ampliata: oltre la biologia, la fisiologia, la genetica, esiste un ambito vasto che include le circostanze personali di vita del paziente, l’ambiente nel quale egli vive ed opera, la situazione sociale, le caratteristiche della sua flora batterica intestinale e, perfino, la sua personalità. Così come è vero per la variabilità biologica, questi fattori, esclusivamente connessi alla “persona ammalata”, hanno un impatto decisivo sulla suscettibilità di quest’ultima alla malattia, su come la malattia si manifesterà fenotipicamente e sul modo con il quale quella malattia – e l’individuo con la malattia – risponderà ai farmaci. Come dire, in altri termini, che l’influenza delle circostanze uniche della persona – il “Personoma” – deve essere considerato altrettanto potente quanto l’impatto del genoma, del proteoma, del farmacogenoma, del metaboloma o dell’epigenoma di quell’individuo.

In ragione della soggettiva, peculiare rilevanza dei fattori psicologici, sociali, culturali, comportamentali ed economici, Il suffisso “-oma” ovvero “-omica” va, dunque, esteso anche alla Persona, aggiunto al kit di strumenti della medicina cosiddetta “di precisione” ed usato per riferirsi alle circostanze di vita uniche dell’individuo. Sono gli eventi che possono condizionare la suscettibilità a contrarre la malattia, l’espressione clinica di quest’ultima ed il suo peso specifico sulla persona ammalata, oltre che il gradiente di risposta diverso, per ciascun paziente, alla terapia somministrata. Come dire che l’ambiente, la cultura, il comportamento individuale giocano un ruolo più che significativo nel rimodulare il rischio pure codificato dalla genetica. Si tratta di acquisizioni non più omissibili, che prefigurano molto più della declinazione di un astratto pensiero antropologico e che, pertanto, non possono né devono lasciare indifferenti soprattutto gli operatori sanitari ai vari livelli.

Quindi per Lei è fondamentale il rapporto che si instaura tra medico e paziente e il considerare il paziente una persona, non un numero?

Guardi, non credo sia un mistero per nessuno che, se da una parte, gli straordinari avanzamenti scientifici della biomedicina hanno favorito la comprensione delle dinamiche che stanno alla base di tante e diverse malattie, dall’altra i medici si trovino molto spesso ad affrontare sfide piuttosto impegnative per riuscire ad analizzare e comprendere i loro pazienti in qualità di “persone”.

Le normative vigenti relative alle ore di servizio hanno ridotto, in una logica totalmente asservita ai parametri della mera produttività economica, la quantità di tempo che i sanitari possono dedicare all’inquadramento diretto delle persone ammalate che a loro si affidano. E, ancor più a monte, gli specializzandi di medicina interna oggi non di rado trascorrono più tempo al computer di quanto ne dedichino a fornire cure dirette al paziente spesso ricevendo, di quel paziente, un format elettronico molto prima di aver incontrato la persona reale in ambulatorio o nel letto d’ospedale. Tutto questo, ulteriormente addizionato alla rilevanza vicaria attribuita alla diagnostica per immagini e a quella di laboratorio, alle consulenze telematiche, alle comunicazioni ultrafast con email, messaggini e whatsapp, ha finito per sminuire, fin quasi ad annullarla, l’importanza primaria dell’anamnesi, elemento prioritario nelle buone prassi della “medicina narrativa”. È come se gli aspetti sociali e psicologici siano diventati oramai, per la cura dei pazienti, molto meno importanti rispetto alle basi molecolari e genetiche di salute e malattia, e l’importanza di comprendere ciascun paziente nella sua qualità di persona venga ritenuta del tutto marginale rispetto alla corretta e completa impostazione della diagnosi e della terapia.

Sono limiti oggettivi sui quali forse bisognerebbe riflettere per cercare di associare, fin dalle fasi della formazione, allo studio della variabilità biologica, l’apporto delle scienze comportamentali e sociali ugualmente indispensabili nelle abilità di cura. Ed è una scommessa sulla quale da subito, forse, occorrerebbe puntare con determinazione convinta e condivisa.

Professore si aspettava questa impennata improvvisa di CoVid positivi?

Immaginare una conclusione netta e definita della pandemia, magari al termine di transitori periodi di tregua come quelli estivi, credo sia ipotesi piuttosto improbabile. Certo la campagna vaccinale procede a pieno ritmo ma, per contro, non si può non considerare il fatto che esista, ed è molto più numeroso di quanto non si possa immaginare, un contingente di persone vaccino-scettiche e, per questo, non aderenti ai programmi vaccinali che son quelli che, di fatto, stanno schermandoci rispetto al prevalere di un virus aggressivo e cangiante. A questo proposito non possiamo trascurare che, trattandosi di una pandemia, le varianti ultime che stanno preoccupandoci sono nate in Paesi nei quali la vaccinazione ha proceduto e sta procedendo molto più lentamente di quanto non si sia già realizzato da noi o in altri Paesi più avanzati. Ecco perché, nelle pratiche della immunoprofilassi, solidarietà e sicurezza dovrebbero sempre muoversi insieme, tanto più in un contesto connotato da condizioni fortemente emergenziali legate ad un evento pandemico senza precedenti se consideriamo che mai, in passato, si era verificata la selezione in pochi mesi di ben tre varianti così fortemente contagiose, come la Alfa, la Delta e la Omicron per il SARS Cov-2.

Se i governi nazionali e regionali le chiedessero un consiglio, cosa direbbe loro?

Per rispondere compiutamente a questa domanda mi permetta di riprendere la mia esperienza originaria e primaria, quella che – in quanto medico del Centro IMID – mi ha portato a considerare la rilevanza strategica delle interrelazioni esistenti tra i tanti fattori influenti sullo stato di salute/malattia delle persone; quella che mi indotto a valutare che una realtà patologica complessa non può mai essere appannaggio di una competenza monodisciplinare. È impensabile, anzi impossibile, che gli aspetti eterogenei di una malattia complessa possano essere compresi e gestiti da un’unica, singola competenza sia anche la più prestigiosa al mondo. Nessuno può avere la presunzione di possedere da solo tutta la verità assoluta.

E così, in un contesto caratterizzato dalla grande difficoltà – e talvolta impossibilità – con cui organizzazioni sanitarie vocate al trattamento dell’acuzie e/o dell’emergenza (la stragrande maggioranza di quelle attualmente esistenti nel Sistema Sanitario Nazionale) riescono a gestire le situazioni di cronicità, peraltro in assenza di politiche della salute territorialmente distribuite, è arrivata la CoViD, una pandemia senza precedenti. Si pensi anche alla sfida che le cronicità pongono all’immagine ipertecnologica di una medicina talvolta prigioniera della sua stessa presunta onnipotenza, presunzione della quale la gestione quanto meno farraginosa dell’evento CoViD è solo l’ultimo degli esempi in ordine di tempo.

Ecco allora che ritorna l’intramontabile refrain: contrastare e, anzi, rigettare la presuntuosa tendenza alla parcellizzazione ed iperspecializzazione del sapere; riaffermare la ricomposizione degli apporti in un’ottica di Sanità Pubblica integrata e di corretta prevenzione oltre che di efficace intervento terapeutico frutto dell’apporto congiunto di competenze multiple. E quante altalenanti dicerie in favore di telecamera, dispersive, contraddittorie, fuorvianti, spocchiose, ci saremmo risparmiate se già soltanto la comunicazione di un evento complesso fosse stata improntata sulla condivisione, sulla fecondità delle contaminazioni tra saperi, sulla disponibilità a rimettere in gioco ruoli e competenze?
Questo, io credo, non si sia voluto capirlo nella gestione della pandemia. Ma proprio perché, alla fine, semplice narratore di una storia vissuta, mi corre l’obbligo di segnalarlo all’attenzione di tutti e alla coscienza di ciascuno.



Questo sito utilizza cookie per fornirti la migliore esperienza di navigazione. Esprimi il tuo consenso cliccando sul pulsante 'Accetta'. Se neghi il consenso, non tutte le funzioni di questo sito saranno disponibili