04 Giu Società aperta o tecnocrazia?
Alla fine l’esperienza CoViD una certezza, almeno una, è riuscita a darcela: gli italiani si fidano della Istituzione Scientifica, purchè però da quella Comunità riesca finalmente ad arrivare un messaggio univoco, coerente, preciso ed esauriente.
Sullo sfondo della riflessione sulla comunicazione scientifica ai tempi del Coronavirus, il prof. Minelli ribadisce la necessità e l’assoluta urgenza di una linea non conflittuale, netta, trasparente, fondata molto più sulle osservazioni cliniche attuali, che non su proiezioni o previsioni decontestualizzate.
L’obiettivo è di favorire la crescita di una conoscenza aperta, basata, più che sul tecnicismo esasperato, sull’evidenza scientifica e sul confronto democratico, poiché è solo “disputando che s’impara”.
Di seguito la trascrizione dell’articolo per facilitare la lettura da mobile:
Alla fine l’esperienza CoViD una certezza – almeno una – è riuscita a regalarcela: gli italiani si fidano della Comunità Scientifica nei confronti della quale nutrono una fiducia piena ed incondizionata, affatto intaccata dai pessimisti social, e cioè da quella massa certamente rumorosa di persone abitualmente predisposte al complottismo e, però, oramai minoritaria e sempre più alternativa rispetto ai criteri e ai paradigmi ufficialmente codificati dalla Scienza.
Sovrana ed affidabile risulta dunque, alla luce di indagini statistiche puntuali ed aggiornate, l’Istituzione Scientifica alla quale, tuttavia, la maggioranza fiduciosa degli italiani continua a chiedere di parlare con una voce sola, un linguaggio coerente ed una comunicazione univoca, la più possibile netta e trasparente.
Certo le contraddizioni, le previsioni incaute e le ritrattazioni, le dispute sono alla base della ricerca scientifica, con discussioni che, a volte, si protraggono per tempi anche particolarmente lunghi. Può esserne riprova indiretta il fatto che le riviste scientifiche più prestigiose e accreditate, dopo la sottomissione di uno studio messo a punto da un pool di ricercatori, impiegano mediamente alcuni mesi prima di procedere all’eventuale pubblicazione di quello studio. E, a loro volta, i tempi di conduzione della ricerca da pubblicare possono durare molti mesi e, talvolta, addirittura anni. Per contro, un talk o un TG o un qualsiasi programma di approfondimento durano, al massimo, un’ora o poco più. I servizi proposti nelle scalette di quelle trasmissioni durano pochi minuti. E una qualche battuta al fulmicotone, affatto inedita all’interno di quei programmi (come, di questi tempi, ci è capitato di sentire), dura pochi secondi a volte affidati solo alla necessità di stupire con effetti speciali la platea dal proprio palcoscenico.
Alla luce di queste premesse rese credibili da tutto quel che, nei palinsesti delle innumerevoli emittenti interessate alle vicende del coronavirus, è transitato in questi ultimi tre mesi fra scontri, battute, reciproche accuse e perfino querele, un interrogativo s’impone: è la scienza che non riesce ad esprimersi nei tempi canonici dell’informazione? O è l’informazione a non essere luogo adatto alla scienza? Ed esiste la possibilità di conciliare le due parti? O, comunque, esiste un percorso alternativo? E, se esiste, perché non seguirlo con convinzione? Una convinzione tanto più motivata quanto più calata nel bel mezzo di una fase ibrida in cui le previsioni epidemiologiche, i ragionamenti matematici, le proiezioni biostatistiche, gli azzardi previsionali improntati a nuove ondate autunnali di paure (fondate non si sa bene su quali presupposti), dovrebbero più credibilmente lasciare il posto alle evidenze oggettive di un deciso dimensionamento del contagio che l’osservazione clinica fa registrare, senza alcuna discontinuità, da diverse settimane.
Non smetteremo mai di credere fermamente nella Scienza, quella provata. Non smetteremo mai di confidare nell’autorevolezza dell’Istituzione Scientifica dalla quale, con incrollabile fiducia, continueremo ad aspettarci certezze e conferme. Ed in questo senso non potremmo non sentirci garantiti dalle decisioni autorevoli dei tanti Comitati Tecnico-Scientifici intesi come entità “prescelte”, composte da individui evidentemente dotati di capacità cognitive superiori alla media, in forza delle quali far assumere ai politici che li hanno scelti la responsabilità della decisione più giusta, perché basata sui criteri della conoscenza provata. Da loro aspetteremo indicazioni e suggerimenti ai quali, come sempre, ci atterremo con attenzione e massimo rispetto. Lo stesso rispetto con il quale, però, vorremmo poter pretendere dai prestigiosi consulenti e dai loro selezionatori l’impegno convinto a non trasformare mestamente la democrazia in elitaria tecnocrazia. Sarebbe davvero esiziale per le attese speranzose di chi, nel pieno rispetto dei più elementari principi democratici, continua ad essere fermamente convinto che, a prescindere da ogni tentazione tecnocratica, è solo “disputando che s’impara”. S’impara a promuovere e a favorire la crescita della conoscenza, intesa come acquisizione di una verità nuova fino a prova contraria e che, se valida in ogni ambito del sapere, diventa, soprattutto per la Scienza medica e per i suoi risvolti salutistici e sociali, elemento etico imprescindibile, fondante e assolutamente vitale.
È solo un piccolissimo warning, lanciato senza pretese di elevarsi a monito o a giudizio, con l’unica sincera aspirazione a non essere ignorato.