
08 Mar Grano importato e salute: situazione attuale e alternative future
A causa della grave situazione internazionale di questo periodo, stanno emergendo alcune questioni che non possiamo più ignorare, come l’approvvigionamento delle materie prime energetiche e alimentari.
Nel numero 48 di Risposta ImmunITALIA, la rubrica settimanale in cui il prof. Minelli risponde alle domande dei pazienti, viene proposta un’analisi sulle conseguenze per la nostra salute generate da un’alimentazione basata prevalentemente sul grano importato dall’estero, e sulle alternative che possiamo adottare per far fronte ai cambiamenti che sono già in atto.
Come mai, con i recenti drammatici accadimenti nello scenario internazionale, stiamo registrando un aumento del prezzo del grano?
Partiamo da una premessa che sembra quasi un paradosso: secondo Coldiretti, l’Italia importa da altri Paesi il 64% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane, pasta, biscotti, e il 53% del mais necessario per l’alimentazione del bestiame. Sempre Coldiretti ci informa che, nel 2021, l’Ucraina e la Russia ci hanno fornito rispettivamente 120 milioni e 100 milioni di kg di grano, contribuendo così per il 5% almeno alla complessiva fornitura di cui l’Italia annualmente ha bisogno.
Con il blocco delle spedizioni commerciali dai porti ucraini sul Mar Nero conseguenti all’invasione russa, già dallo scorso mese di febbraio 2022 l’importazione dei cereali provenienti da quelle regioni ha subìto, insieme a un brusco arresto, una vertiginosa impennata dei prezzi applicati ai diversi prodotti importati, tra i quali certamente il grano, le cui quotazioni sui mercati internazionali sono già salite del 10%. Tanto che l’Associazione dei Consorzi Agrari d’Italia (CAI) ha lanciato l’allarme, informando che le quotazioni di grano tenero sono “a livelli mai visti prima d’ora e le prime conseguenze potrebbero ricadere presto sui consumatori”.
Di fatto è quel che sembra stia già accadendo in queste settimane visto che, sempre secondo Coldiretti, il prezzo del pane fresco in media era già aumentato in gennaio del 3,8% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Nello specifico, un kg di grano tenero in Italia ora è venduto a circa 32 centesimi di euro: rispetto al costo medio di 3,2 euro al quale viene acquistato un kg di pane dai cittadini, abbiamo un rincaro moltiplicato per dieci volte.
Ci sono differenze tra il grano importato dalle regioni attualmente teatro di guerra e il grano più tipicamente mediterraneo, coltivato nei nostri territori e con le nostre tecniche agronomiche? E se ci sono differenze qualitative, queste possono anche incidere sulla sicurezza alimentare del consumatore?
Il grano che arriva dalle coltivazioni ucraine e russe è quello che, in ragione del suo elevato contenuto di proteine e in particolare di glutine, viene abitualmente utilizzato per produrre la farina manitoba, dotata di peculiari caratteristiche tecnologiche e abitualmente utilizzata per preparare dolci, pane, pizze e in generale i più classici prodotti da forno. Dunque, quel grano che fino a qualche settimana fa perveniva ai nostri pastifici dalla Russia e dall’Ucraina è in grado di generare una farina speciale che, in forza della grande quantità di glutine al suo interno, è capace di assorbire più acqua, ciò che la rende tra le più idonee per impasti elaborati che richiedano una più lunga lievitazione.
Andrebbe tutto bene se non fosse che il glutine, com’è risaputo, può rendersi responsabile di patologie diverse, la più nota delle quali è caratterizzata dalla produzione di specifici anticorpi la cui presenza rivela, nel soggetto in esame, una irreversibile incapacità di tollerare il glutine, ed è il caso della celiachia.
Quali sono i problemi di salute legati al glutine? Si tratta sempre di celiachia?
No, non sempre. In qualche caso il glutine può evocare vere e proprie risposte allergiche, con quadri clinici di allergia respiratoria o di orticaria da contatto ovvero con vere e proprie reazioni di anafilassi grano-dipendente per lo più indotte da esercizio fisico (WDEIA).
Ma dal glutine possono anche essere evocati fenomeni reattivi il più delle volte a valenza sistemica, non caratterizzati da presenze anticorpali né da dinamiche strettamente allergologiche, ma riconducibili a un’entità nosologica emergente ed oramai universalmente definita “sensibilità al glutine non celiaca” o più semplicemente Gluten Sensitivity.
Si tratta di una condizione patologica più recentemente aggregata ai disordini correlati al glutine, piuttosto composita sul versante sintomatologico, sostenuta da disfunzioni della componente innata del sistema immunitario e caratterizzata da una buona risposta clinica all’esclusione transitoria ovvero, più opportunamente, a una riduzione modulata e personalizzata dell’apporto alimentare di prodotti contenenti glutine. La sua incidenza nella popolazione generale risulta essere almeno sei volte più alta rispetto alla celiachia, con stime che in Italia contano, con buona approssimazione, almeno cinque milioni di persone che ne risulterebbero affette.
A fronte di questi quadri clinici, non sempre evidentemente assimilabili a quella che, con diffusa faciloneria, viene spesso ritenuta solo una moda incontrollata, ci sarebbe da chiedersi quanto, sulla crescente incidenza di tali patologie, non abbia pesato l’uso prevalente di alcune varietà di grano importato che, proprio perché dotate di maggiori quantitativi di glutine, hanno riscontrato un crescente interesse da parte dei panificatori, in forza della loro capacità di facilitare e velocizzare la lavorabilità degli impasti.
Quali alternative esistono per contrastare l’aumento della sensibilità al glutine nella popolazione?
Esistono farine di grano duro coltivato in Italia, più diffusamente nel sud-Italia, dotate di straordinarie caratteristiche nutrizionali, con percentuali di zuccheri e di glutine più contenute e con composizioni proteiche più facilmente assimilabili e digeribili rispetto ai grani d’importazione oggi prevalenti nel nostro Paese.
Si tratta di farine la cui coltivazione è spesso confinata in nicchie circoscritte e territorialmente limitate, affidate alla passione e alla buona volontà di piccole cooperative agricole nate con l’intento di contrapporsi al trend in atto nel nostro Paese che ha fatto registrare, in poco meno di dieci anni, la repentina scomparsa di almeno un campo di grano su cinque. Tutto questo, secondo Coldiretti, ha portato in Italia alla “perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati perché molte industrie, per miopia, hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale…”
Quali sono nello specifico le tipologie di grano più salutari e coltivate in Italia?
A partire dal Farro Dicoccum, la cui semola è ottima per pane, focacce e pizze, e dal Farro Monococco vero e proprio antenato dell’attuale grano duro, ricco di benefiche proprietà nutrizionali, esistono altre tipologie di granaglie accomunate dall’appartenenza alla categoria dei cosiddetti “grani antichi”, dai quali ottenere farine meno fini, ma più sane perché ricche di vitamine, enzimi, sali minerali.
È il caso, per esempio, delle varietà “Timilia”, o “Saragolla”, o “Perciasacchi”, o della varietà storicamente più recente “Senatore Cappelli”, caratterizzate da composizioni proteiche più facilmente digeribili, con importante contenuto in vitamine e oligoelementi come potassio, calcio, zinco, magnesio, a basso carico glicemico e a ridotto indice di glutine rispetto ai grani moderni, soprattutto a quelli di importazione.
Gli alimenti preparati con queste tipologie di grano sono adatti a tutti?
La produzione di farine dai grani nobili storicamente noti alle nostre popolazioni e la preparazione di prodotti alimentari con tali frumenti, del tutto equivalenti per gusto ed aspetto a quelli comunemente utilizzati nell’alimentazione mediterranea, potrebbe rappresentare addirittura un’alternativa terapeutica tanto ricercata a supporto della crescente popolazione di soggetti sensibili al glutine seppur non celiaci.
Tra l’altro i prodotti preparati con farine derivanti da grani più facilmente assimilabili e con più basso indice di glutine potrebbero essere destinati non solo alla fascia della popolazione sensibile al glutine, ma anche a tutta la restante popolazione con l’obiettivo di realizzare, in maniera del tutto innovativa, una progressiva riduzione dei livelli sempre più crescenti di sensibilizzazione patologica dell’intera popolazione nei confronti del glutine.
Finisce, così, che il ritorno a una produzione autoctona del grano – ma poi non solo del grano – che riconquisti l’autosufficienza confidando nelle proprie risorse e nelle proprie conoscenze, potrebbe risultare utile oltre che per ridare forza ad approvvigionamenti garantiti da prodotti nazionali, anche per soddisfare le richieste che partono dalle condizioni cliniche di persone con specifiche esigenze alimentari, per consentire loro di evitare riaccensioni sintomatologiche inevitabilmente destinate ad evolvere verso la cronicità, ma anche per superare con successo situazioni che spesso limitano la convivialità e tendono ad escludere i rapporti sociali.