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CoViD 2022: riflessioni e bilanci a due anni dall’inizio della pandemia

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CoViD 2022: riflessioni e bilanci a due anni dall’inizio della pandemia

Ravvivato da alcuni richiami mediatici mi ritorna, in questi giorni, il ricordo di una storia già datata eppure attualissima, personale eppure pubblica, lineare eppure contraddittoria, timorosa eppure audace. Una storia che per tanti di noi ha segnato, ri-orientandolo, il percorso della vita personale e collettiva.

Ma facciamo un passo indietro, anzi due. E proviamo a farci qualche domanda.

Il crollo delle certezze

Chi mai, nel febbraio 2020, avrebbe potuto immaginare che, per quanto iperdotati di conoscenze, di tecnologie, di strumenti con cui governare e dominare qualunque inaspettata criticità, avremmo poi così drammaticamente dovuto indietreggiare nelle nostre certezze e nella storia che impietosamente ci ha ricacciati ai tempi della peste, costringendoci alla distanza e all’isolamento sociale?

E chi mai, nel febbraio 2020 e nei 24 mesi a seguire, avrebbe pensato di poter verificare nei fatti l’esistenza di così ampi margini di diseguaglianza sociale e di così macroscopica carenza non solo di protezione ai deboli, ma anche di programmi capaci quantomeno di minimizzare gli effetti di tale angosciosa débâcle?
Possiamo forse negare che a patire tanto di più gli effetti di un virus invisibile ai radar delle nostre presuntuose sicurezze siano stati gli anziani confinati nelle case di riposo? O i tanti cittadini del mondo rimasti senza lavoro? O le piccole imprese costrette a chiudere ogni prospettiva di speranza faticosamente costruita intorno ad un progetto a lungo coltivato?

Quando tutto è iniziato

Ricordo, due anni fa, i tempi delle primordiali avvisaglie CoViD quando, pur avvertendo un’inquietudine montante al sopraggiungere delle prime notizie, in tanti pensammo bene di esorcizzare quell’incipiente preoccupazione, decidendo lì per lì di non cambiare per nulla la nostra vita di sempre, di autoconvincerci che in fondo di altro non poteva trattarsi se non di un’influenza poco più che rinforzata, elucubrando calcoli sommari ma, intanto, cominciando a familiarizzare con i tassi di contagiosità, di ospedalizzazione, di letalità, premendo sui dispenser degli igienizzanti a base di amuchina, accorgendoci della progressione planetaria di quella che di lì a poco si sarebbe rivelata una vera e propria apocalisse.

Fu così che nello spazio temporale di pochissime settimane ci accorgemmo che un qualcosa di inedito e anzi di impensabile stava già accadendo, un qualcosa che avrebbe messo a soqquadro, insieme alle nostre vite, le nostre attività professionali e lavorative, i processi educativi e formativi dei nostri figli, le pratiche e le strutture sanitarie, e avrebbe trasformato le nostre città in ghetti isolati, con le serrande appena socchiuse sulle strade vuote e con una quota sempre più numerosa di cittadini costretti a vivere (se non morivano) di carità e di soccorso pubblico.

Li ricordo quei giorni vissuti nell’impossibilità, di giorno in giorno crescente, di guardare l’altro che non conoscevamo senza l’angosciante timore del contagio. Ricordo quelle lunghissime giornate vissute nella solitudine delle nostre abitazioni, con uscite contingentate e rigorosamente schermate da mascherine con cui proteggersi dagli altri. Ricordo gli stati d’animo contrastanti (quando non ostili e perfino violenti) con i quali, contando sulle nostre soggettive convinzioni, abbiamo riflettuto e dibattuto a suon di social sull’esperienza in corso e sul futuro. Personalmente ricordo l’incessante ricerca diurna e notturna di rassicurazioni – ahimè non sempre fondate – nella rassegna delle tecnologie di supporto al tempo disponibili e nello scrigno magico della ricerca di base.

Le fasi che hanno scandito gli eventi

Ricordo anche le varie fasi, altalenanti e quasi schizofreniche, della copertura mediatica della pandemia. La prima fase, quella delle misure drastiche di contenimento e del lockdown, caratterizzata dalla centralità della figura mitizzata del medico-eroe e sintetizzata nella frase-chiave “andrà tutto bene”. E poi la fase due, quella dell’irruzione del vaccino come arma risolutiva della pandemia, e dei suoi portavoce – virologi ed epidemiologi in primo luogo – con gli attori politici relegati a un ruolo subalterno e con una sostanziale riduzione a contorni sempre più sfumati delle altre professioni sanitarie che pure, coi volti di medici e infermieri distrutti da turni infiniti nelle corsie, avevano della prima fase costituto l’immagine chiave.

E poi la terza fase, quella attuale nella quale, al posto della granitica certezza sulla potenza salvifica dei vaccini, a imporsi è un registro linguistico che, per non ridursi al conteggio quotidiano di contagi, ingressi nelle terapie intensive, indice Rt e numero di decessi, sembra essersi spostato sul terreno impervio delle previsioni, sui dubbi delle quarte dosi, sulle capricciose bizzarrie del tennista no-vax, sui sospetti (per la verità indifferenti ai più) relativi all’acquisto milionario di una villa da parte di un tronista della fase precedente.
Confusi balbettii in un’arena di conflitto nella quale ogni attore si trincera a difesa, mentre su tutto continua sottilmente a prevalere l’incertezza di un futuro impredicibile.

Fortuna che la pandemia, anche per effetto di una solidarietà verosimilmente esaltata dalla condizione del “mal comune”, è riuscita almeno nell’intento di rimarcare la forza valoriale della “persona” evidenziando come il benessere della comunità che ci appartiene, oltre che dai governanti, in larga misura dipenda anche da ciascuno di noi.

La speranza del futuro

Più e più volte, nel corso di questi due anni, la pandemia da CoViD-19 ha evocato la speranzosa metafora del tunnel, alla cui uscita avremmo dovuto trovare, seppur impoverito, lo stesso mondo di prima.
Beh! A due anni di distanza dall’esordio, credo che questo non accadrà e, in larga parte, vivamente spero che non accada!
L’evento pandemico, tumultuoso e tragico, ha tutti i crismi per diventare un’opportunità preziosa. Un’opportunità potenzialmente in grado di disvelare crepe non evidenti ad occhi oramai abituati a non vederle. Un’opportunità capace di superare finalmente processi di crescita improduttivi in quanto adattivi al già esistente e, dunque, del tutto contrapposti alla speranza, virtù tenace e paziente, unica in grado di “preparare il futuro”. Unica in grado di accendere davvero la luce in fondo al tunnel.

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