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CoViD-19: perché alcune persone non si infettano?

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CoViD-19: perché alcune persone non si infettano?

I cambiamenti nell’andamento della pandemia fanno emergere dei dubbi a cui la scienza sta iniziando a rispondere, grazie a nuovi studi sempre più approfonditi del fenomeno.

Uno di questi è la differenza tra chi si ammala gravemente a causa dell’infezione da SARS-CoV-2 e chi, invece, rimane asintomatico o, addirittura, non viene affatto contagiato, neanche dopo essere stato a contatto con una persona positiva al coronavirus.

Ne parla il prof. Minelli nell’intervista rilasciata all’Huffpost il 4 aprile 2022. Riportiamo qui di seguito il testo integrale dell’intervista.

Perché alcune persone non hanno mai preso il CoViD?

Sono trascorsi oltre due anni e quattro ondate da quando il CoViD è entrato nelle nostre vite eppure qualcuno, nonostante i contatti con persone risultate positive e la frequentazione di ambienti in cui il virus è in grado di riprodursi, è rimasto praticamente immune. Huffpost ha voluto indagare cosa si celi dietro questo fenomeno con l’immunologo Mauro Minelli, responsabile per il Sud-Italia della Fondazione per la Medicina Personalizzata.

Le “infezioni lampo”

Bisogna partire da un dato: SARS-CoV-2 circola da così tanto tempo che è quasi impossibile che una persona non vi sia mai entrata in contatto. Si può, quindi, ipotizzare che alcuni di noi abbiano incrociato il virus, ma che questo sia stato eliminato dal nostro organismo tempestivamente prima che potesse svilupparsi e provocare la malattia: a sottolineare l’ipotesi giunge un recente approfondimento del Guardian. Questo fenomeno, chiamato infezione abortiva, potrebbe averci portato a sviluppare delle cellule “di memoria” T in grado di proteggerci dal pericolo di infezioni successive? “È possibile. D’altronde il nostro organismo può risultare infetto anche per un tempo assai limitato… Ma quel lasso di tempo è sufficiente a mettere in moto meccanismi immunologici che portano alla tempestiva produzione di validi sistemi di difesa”, afferma il professor Minelli.

Dunque è probabile che alcuni di noi non siano ‘super-immuni’, ma che abbiano semplicemente alle spalle “un’infezione lampo” su cu si è andata ad innestare la protezione aggiuntiva delle vaccinazioni. “Ovviamente se un soggetto immunizzato decide di effettuare un test sierologico, nessuno sarà in grado di distinguere gli anticorpi derivanti da un’infezione di brevissima durata da quelli derivanti dalla vaccinazione, dice l’immunologo.

Ma attenzione: questi elementi non forniscono un’immunità assoluta. Va sottolineato che se si sono schivate una o più varianti non è detto che con la prossima accadrà lo stesso. “Per questo è importante non abbassare la guardia – evidenzia Minelli – è un appello che vale la pena ribadire in questi giorni. Molte persone stanno confondendo i sintomi di Omicron e Omicron 2 con quelli dell’allergia stagionale. Sappiamo che la variante e la sottovariante sono molto contagiose e che tendono a provocare disturbi prevalentemente a carico delle alte vie respiratorie, per molti versi sovrapponibili a quelli che in primavera si presentano nei soggetti con storia clinica di “febbre da fieno”. In caso di dubbi rimane fondamentale effettuare il tampone per SARS-CoV-2 per proteggere sé stessi e gli altri”, sottolinea lo scienziato.

L’ipotesi OC43

All’inizio del 2021 alcuni scienziati di Boston hanno notato come la proteina spike del SARS-CoV-2 assomigliasse molto a quella di altri quattro coronavirus (OC43, HKU1, NL63 e 229E) che circolano nel mondo, probabilmente da secoli, senza causare grandi danni. In particolare, gli scienziati si sono concentrati su OC43, entrato nella storia dell’uomo alla fine dell’Ottocento causando un’epidemia di polmonite di cui abbiamo scarsa documentazione storica. Questo virus, col tempo, si è adattato diventando meno aggressivo e ogni inverno torna a farci visita causando casi di influenza o, magari, di semplice raffreddore. Cosa ci dice questa storia con le persone che sembrerebbero essere “immuni” al CoViD? “Vista la somiglianza tra la proteina spike dei due virus, le persone che posseggono la memoria di contagi da OC43, che si infettano con il SARS-CoV-2 e subito, nei primi giorni dell’infezione, sviluppano anticorpi che si legano da una parte alla spike di OC43 e dall’altra alla spike del CoViD, non si ammalano o, se si ammalano, vanno incontro a una malattia blanda e guariscono in breve tempo. Detto altrimenti, secondo l’ipotesi di Boston, chi possiede la memoria immunitaria di un virus come OC43 potrebbe risultare protetto da SARS-CoV-2, dice Minelli.

E per quanto riguarda gli altri tre coronavirus (HKU1, NL63 e 229E)? L’immunologo spiega che la questione è differente: “Essi non solo non circolano così frequentemente come OC43 ma, secondo i ricercatori di Boston, la loro somiglianza col SARS-CoV-2 non sarebbe tale da stimolare la produzione di anticorpi realmente protettivi”.

Il ruolo di Ace2

Ormai sappiamo che, per infettarci, il SARS-CoV-2 ha bisogno che la sua proteina spike si attacchi a recettori specifici delle cellule umane, tra i quali quello denominato “Ace2”. Per esempio, alcuni scienziati hanno affermato che una minore presenza di Ace2 nei polmoni dei bambini rispetto agli adulti potrebbe spiegare, in parte, perché i più piccoli spesso abbiano infezioni più lievi. Quindi è possibile che alcune persone tendono a non ammalarsi o ad ammalarsi in maniera più lieve perché presentano livelli diversi di Ace2 rispetto ad altri?

A tale proposito Minelli cita “un articolo pubblicato già nel 2020 dal J Clin Allergy Immunol che ipotizzava come le persone affette da asma allergico presentassero, per fattori genetici, una ridotta capacità di produrre Ace2 con conseguente minore rischio di essere colpiti da forme gravi CoViD”. “Esattamente il contrario di quanto accade, per esempio, nei grandi fumatori o nei pazienti affetti da diabete o ipertensione, condizioni che, invece, portano a una grande produzione di Ace2”, dice Minelli.

A proposito del recettore, “porta di ingresso” per il CoViD nelle cellule umane, il Guardian parla addirittura di polimorfismi, ovvero di differenze di reazione alla proteina tra le persone. “È possibile che alcuni di noi posseggano rari tipi di Ace2 a cui la proteina spike del coronavirus non può attaccarsi […] Le persone che hanno un raro polimorfismo genetico rispetto alla proteina CCR5 sono risultate immuni all’infezione da HIV. A sostegno di questa teoria, recenti analisi genetiche hanno rivelato che rari tipi di Ace2 possono influenzare la possibilità d’infezione da CoVid-19”, si legge sulla testata britannica.

La genetica e l’interferone

Ormai da tempo sono in corso ricerche per capire come i fattori genetici possano influire nel determinare la suscettibilità all’infezione oppure, al contrario, possano contribuire a rendere una persona “resistente” al CoViD. Uno degli ultimi sviluppi della ricerca ha consentito di scoprire che un gruppo di geni, presenti dal 15% al 20% di coloro che si ammalano in modo grave, è specializzato nel distruggere l’unica molecola capace di costruire una barriera contro l’infezione da SARS-CoV2, ossia l’interferone.

La scoperta, pubblicata a gennaio sulla rivista Nature, è la chiave per comprendere come mai in alcuni la malattia scatena polmoniti aggressive, mentre altri restano asintomatici. Il risultato è il punto di arrivo della ricerca iniziata nel 2020 dal gruppo internazionale coordinato da Jean-Laurent Casanova, della Rockefeller University, in collaborazione con il consorzio Internazionale di genetica CoViD Human Genetic Effort e al quale l’Italia partecipa con il gruppo di Giuseppe Novelli, dell’Università di Roma Tor Vergata, e con l’Istituto San Raffaele di Milano, l’Università di Brescia, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma.

“Stiamo studiando le caratteristiche di chi si ammala in modo grave e i dati indicano che la differenza, rispetto all’infezione, la fa l’ospite”, ha detto a gennaio Novelli all’Ansa. Nei geni legati alle forme gravi della malattia, alcuni dei quali sono stati descritti nei mesi scorsi dallo stesso gruppo di ricerca, ce ne sono alcuni che hanno a che fare con la cosiddetta immunità innata, ossia con la capacità di ciascun individuo di difendersi dal virus e la cui scoperta è stata premiata nel 2011 con il Nobel la Medicina a Bruce Beutler e Jules Hoffmann.

“Abbiamo dimostrato – ha detto ancora Novelli – che buona parte dei malati gravi ha un difetto nella produzione dell’interferone”, ossia non riesce a produrre o addirittura distrugge la molecola che gioca un ruolo chiave contro la tempesta di citochine tipica delle forme gravi di CoVid-19. Questo accade perché non vengono prodotte le molecole-sensore che attivano i recettori delle cellule immunitarie chiamati TLR, che hanno il compito di avvertire del pericolo. In sostanza, in chi contrae la forma grave di CoVid-19, il sistema immunitario non si attiva e non lancia alcun allarme, lasciando al virus la strada completamente libera.

Per Novelli “è una scoperta che apre le porte alla terapia personalizzata”, un obiettivo realizzabile soltanto facendo lo screening genetico delle forme gravi. Contemporaneamente si possono approfondire i segreti dell’immunità naturale e il prossimo passo dei ricercatori potrebbe essere studiare gli individui super-immuni, ossia che non contraggono l’infezione, o coloro che, dopo essere stati contagiati, restano asintomatici. Studiare l’immunità naturale è importante anche per avere nuovi strumenti per contrastare il virus, accanto all’immunità acquisita data dai vaccini. I ricercatori rilevano infatti che “non è chiaro se i vaccini rimarranno efficaci a lungo termine e se lo saranno anche contro eventuali nuove varianti del virus”.

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