17 Mag CoViD-19: intestino ricovero a lungo termine del virus
Esiste un canale diretto di comunicazione tra i polmoni e l’intestino, e il coronavirus lo ha rivelato in modo chiaro. Il prof. Minelli approfondisce questo argomento in un articolo pubblicato il 14 maggio 2022 su Adnkronos.com, che riportiamo qui di seguito.
Studi diversi, recentemente condotti su grandi numeri di pazienti, hanno evidenziato un sempre più chiaro coinvolgimento dell’apparato gastrointestinale nella malattia da SARS-CoV-2, fino a far supporre addirittura che l’intestino possa rappresentare una sorta di “ricovero” a lungo termine del coronavirus, come dimostrato dalla presenza di RNA virale nelle feci di pazienti che diversi mesi prima avevano manifestato sintomi respiratori da CoViD-19.
Si tratta di evidenze che avvalorano l’esistenza di un “asse intestino-polmoni” da intendersi come una vera e propria connessione bidirezionale tra i due distretti, ma soprattutto tra i contenuti microbici dei due ambienti in dialogo perenne. Quasi che l’intestino, anche per una malattia a prevalente coinvolgimento polmonare, giochi un ruolo chiave facendo da hub di un network complesso nel quale primeggia il ruolo regolatore del microbiota non limitato evidentemente all’intestino ma esteso anche ad organi distanti.
D’altro canto, il ruolo del microbiota intestinale nell’influenzare le malattie del tratto respiratorio è ben noto da tempo e per altre patologie. È anche noto che le infezioni da virus respiratori causano, a loro volta, turbe quali-quantitative del microbiota intestinale. È inclusa tra queste infezioni anche quella da nuovo coronavirus visto che numerosi studi su pazienti affetti da COVID-19 hanno evidenziato alterazioni del microbiota fecale dopo l’infezione da SARS-CoV-2.
Tali alterazioni dimostrano una disbiosi intestinale caratterizzata da un elevato numero di agenti patogeni opportunistici e una diminuzione di commensali benefici. Inoltre, questi studi hanno osservato, da una parte, una correlazione diretta tra l’aumento di alcuni microrganismi – quali Coprobacillus, Clostridium ramosum e Clostridium hatheway – e la gravità della malattia CoViD-19; e, dall’altra, una correlazione inversa tra l’abbondanza di Faecalibacterium prausnitzii e la gravità della malattia stessa. Di notevole importanza è anche il fatto che esperimenti in modelli animali hanno individuato alcune specie di batterioidi che deregolano l’espressione di ACE2 nell’intestino di questi animali. La presenza di queste specie è stata individuata anche in campioni fecali di pazienti affetti da CoViD-19 e la loro abbondanza correla inversamente con il grado di infezione da SARS-CoV-2.
Tutti questo materiale documentale, che attualmente costituisce ancora narrazione aneddotica malgrado se ne parli da almeno due anni, ha certamente bisogno di conferme scientifiche che dimostrino in maniera inequivocabile non solo la correlazione complessa tra composizione quali-quantitativa del microbiota e prima infezione da SARS Cov-2, ma anche la maggiore o minore criticità del long-coViD, offrendo nel contempo gli strumenti più idonei a suggerire approcci terapeutici aggiuntivi utili a contrastare l’infezione, ad influenzare il decorso e la gravità della malattia e a valutare la possibilità di interventi preventivi e diagnostici mirati.