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Coronavirus: Forme latenti si svilupperanno ancora, ma clinicamente è un fatto normale

Coronavirus: Forme latenti si svilupperanno ancora, ma clinicamente è un fatto normale

Intervista sul Quotidiano di Puglia del 12 marzo 2020

 

«Non esistono soggetti indenni per autoconvinzione: atteniamoci alle regole igieniche e conterremo la diffusione del virus e le sue conseguenze. Non esistono pozioni magiche e non esistono superimmuni per definizione». Parla Mauro Minelli, medico, specialista in Immunologia clinica e Allergologia, responsabile della sezione “Italia Meridionale” della Fondazione Italiana Medicina Personalizzata e professore straordinario di Igiene Generale e Applicata oltre che di Scienze dell’Alimentazione presso l’Università Telematica Pegaso.

 

 

I contagi sono in aumento. È sintomo di una maggiore aggressività del virus

«Occorre leggere bene i dati. Ad oggi i contagiati sono poco meno di 6000 e sono destinati ad aumentare nei prossimi giorni, nei quali registreremo un picco. Questo non perché il virus abbia nel tempo acquisito maggiore forza e virulenza, ma perché si svilupperanno clinicamente tutte quelle forme latenti già silentemente avviate nelle settimane precedenti quando ancora non erano state perfettamente definite le linee comportamentali più idonee e, conseguentemente, non c’era ancora stata piena adesione della popolazione alle indicazioni mediche poi suggerite. Nel senso che il dato complessivo delle persone censite che oggi prendiamo in considerazione non è attuale: ci dice quante persone, nelle ultime 5-6 settimane, sono venute a contatto con il virus, magari sviluppando una forma clinicamente rilevabile. Il dato quotidiano dei nuovi contagi ci dice, invece, quante persone, più o meno sette giorni fa, hanno iniziato quel percorso che non è detto affatto debba, comunque, portare a forme cliniche di particola severità. D’altro canto quello della Covid-19 è un virus a Rna e la storia ci insegna che questa tipologia di virus nel tempo può andare incontro a mutazioni dalle quali si generano varianti molto meno aggressive rispetto alla forma primordiale».

 

Il dato che oggi prendiamo in considerazione non può essere completamente attuale.

 

Quali sono i tempi di questa malattia?

«La finestra temporale che intercorre tra i primi sintomi della malattia e l’eventuale ricovero (quindi il tempo necessario perché la malattia diventi clinicamente importante), varia in media dai 9 ai 13 giorni. Questo periodo di tempo rappresenta la fase della malattia nella quale si ha l’opportunità di intervenire più efficacemente dal punto di vista medico. Ne consegue che, proprio in ragione dei tempi di intervento, cambiano significativamente le dinamiche gestionali e dunque i riscontri sanitari della malattia da soggetto a soggetto a seconda di una serie di variabili non sempre ponderabili e che, quando non conosciute, non possono autorizzare a gratuite illazioni o a letture ingiustificate e, dunque, impropriamente allarmistiche».

 

E le ricadute?

«In generale qualsiasi sindrome influenzale o simil-influenza, quale sembra essere quella generata dal nuovo Coronavirus, se non pienamente superata può provocare delle ricadute. Ma anche in questo caso non abbiamo ancora dati a sufficienza per poter esprimere un’indicazione, perché non conosciamo esattamente le dinamiche immunologiche attivate dal virus della Covid-19. Possiamo, sempre sulla base di mere estrapolazioni derivanti da precedenti storici, prevedere che con l’aumento delle temperature auspicabili nelle prossime settimane, unitamente alle precauzioni igieniche, alla riduzione dei contatti messi in essere con le misure decise dal governo, il virus possa perdere progressivamente parta della sua intrinseca potenzialità con conseguente più facile controllo dell’epidemia».

 

Ma, da immunologo clinico, una sua personale stima autorizza ad essere almeno moderatamente ottimisti?

«La stima prevedibile è nelle cose o, meglio, nella giusta lettura delle cose. Oggi parliamo in Italia di 233 decessi a fronte di 5883 persone sicuramente censite come “contagiate”. Se questi fossero i dati veri, noi saremmo di fronte ad un tasso di mortalità (che si calcola dividendo il numero dei decessi per il numero dei casi e poi moltiplicandolo per 100) dell’agente responsabile della Covid-19 pari al 3,96%. Ma se, come è lecito supporre, conoscessimo il reale “denominatore” dell’infezione che vuol dire i numeri veri del contagio, cioè quelli che fanno riferimento anche ai casi asintomatici o minimamente sintomatici stimati secondo fonti autorevolissime intorno a cifre almeno cento volte più alte di quelle ufficialmente censite allora cambierebbe tutto».



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